mercoledì 18 aprile 2007

La schiaccia di Pasqua







Quando ero piccola, una decina di giorni prima di Pasqua nonna Irma cominciava a preparare le schiacce, e per diversi giorni impastava e reimpastava (“vanno ritoccate” diceva) e in cucina aleggiava un odore di lievito e di anaci, mentre grosse pentole coperte da asciughini bianchi venivano spostati di qua e di là alla ricerca del posto più tiepido e più adatto a favorire la lievitazione. Nonna è invecchiata, ha smesso di fare le schiacce, ho cominciato io, ormai una ventina di anni fa. Non proprio tutti gli anni, a volte le abbiamo comprate e se ne trovano di buone, soprattutto in montagna. Ma mi piace tanto farle, credo sia proprio per il cerimoniale in sé, oltre che per ritrovare un sapore della mia infanzia. Per chi non le abbia sempre mangiate, dolce tipico per Pasqua, probabilmente non sono un granché, e il lavoro che richiedono non vale il risultato. Ma ho detto cerimoniale, appunto, e non procedimento: e come in qualsiasi rituale ogni gesto in sé insignificante rimanda ad un senso più profondo, una suggestione indecifrabile, o almeno così mi sento.
E in più la preparazione della schiaccia di Pasqua mi ricorda un po’ quelle filastrocche che si ripetono sempre uguali ma cui ad ogni strofa si aggiunge un elemento: e venne il cane che morse il gatto che si mangiò il topo….
C’è anche un mistero nella ricetta: nonna partiva da quella dell’Artusi (Stiacciata alla livornese, n° 598), ma diceva sempre che ci metteva “ più roba”. E quando chiedevo “Ma che roba?” diceva più zucchero, più olio… insomma gli ingredienti già presenti. Era già molto anziana, non si spiegava meglio. E quelle che facevo io non erano mai buone come quelle che aveva fatto lei. Non le abbiamo mai preparate insieme, io stavo a Firenze, facevo i miei esperimenti e tornavo a casa per Pasqua con le schiacce già pronte ( e mi restava il profumo in macchina per molti giorni). Una volta sentii dire che alcuni aggiungono ricotta all’impasto. Chiesi a nonna, lei mi disse “E certo!”, ma non sembrava più tanto sicura; e mamma invece è sicura che non ce l’ha mai messa.
Insomma ogni anno tento variazioni e modifiche (ma non ho mai messo la ricotta) e ogni anno ottengo risultati leggermente diversi, sempre dignitosi, ma ancora non sono riuscita a farle come quelle di nonna. Recentemente ho sentito anche parlare di una patata lessa schiacciata e aggiunta all’impasto. Mi si prospettano molti altri anni di sperimentazioni.
Quest’anno l’ho fatta così.
Ho impastato un cubetto di lievito con 200 gr di farina e tanta acqua da farne una pasta molle. Si lascia a lievitare nella catinella, appoggiata sulla farina e coperta da un panno, finché non è cresciuta al punto giusto. E poi comincia il gioco! Primo giro: in un’altra terrina, sbattere 1 uovo, 1 cucchiaio di olio, 1 cucchiaio di vinsanto, 1 cucchiaio di zucchero e farina sufficiente a formare una pasta morbida. Mescolare alla pasta già lievitata e impastare a lungo, prima strizzando tra le dita, poi sbattendo sul tavolo, finché i due impasti sono bene amalgamati e formano una palla liscia. Far lievitare di nuovo.
Secondo giro: aggiungere 3 uova, 5 cucchiai di zucchero, 5 di olio, 5 di vinsanto, farina q.b. Stesso procedimento, far lievitare di nuovo. Terzo giro: aggiungere 5 uova, 7 cucchiai di zucchero, 7 di olio, 7 di marsala, farina q.b. Quarto giro: 6 uova, 10 cucchiai di zucchero, 250 gr di burro, 250 ml di marsala, 1 pizzicone di sale, 20 gr di anaci, farina q.b. Dividere in porzioni e mettere a lievitare per l’ultima volta nei contenitori (abbondantemente imburrati) in cui verranno cotte: stampi a cilindro in carta (li ho chiesti al mio fornaio) o tegami bassi e larghi, ovviamente con manici di metallo perché vanno in forno. Lasciare molto spazio negli stampi, tenere presente che la lievitazione fa almeno triplicare il volume dell’impasto.
Finalmente, dopo l’ultima lievitazione, si spennella con uovo sbattuto e si cuoce in forno a 160° per circa un’ora.
Considerazioni generali. Visto il procedimento, è ovvio che non se ne può fare una! Con queste dosi me ne sono venute 3 grandi e 5 piccole. Nella cottura, le piccole le ho tolte dal forno una ventina di minuti prima. Le grandi mi sembrano più buone, ma forse è solo perché nonna le ha sempre fatte grandi. Ad ogni giro la lievitazione è più lenta, l’ultima l’ho fatta fare già dentro il forno, leggermente intiepidito, per tutta la notte. Già perché il gioco va avanti, credo sia risultato evidente, per diversi giorni: a seconda della temperatura, della forza del lievito, di chissà quali imponderabili fattori. E ci vuole un po’ d’occhio, bisogna ritoccare l’impasto quando è ben lievitato, non prima e non dopo, sennò la pasta “se ne scresce”, come dice Lia. A volte nonna faceva tardissimo la sera o si alzava prestissimo la mattina per ritoccarle al momento giusto; io sono meno pignola, un po’ di margine di tolleranza c’è, ma certo non si può lasciare troppo lì l’impasto quando è pronto, sennò perde forza e non lievita più.
E infine si mangia la mattina di Pasqua, con l’uovo benedetto e con i salumi: prosciutto, salame, capocollo. In effetti molti la mangiano solo con l’uovo, l’uso di mangiarla con i salumi credo sia solo di casa mia. Viene da un anno in cui, in un picnic di Pasquetta, si era dimenticato il pane e si mangiò la schiaccia col salame. E l’uso è rimasto.

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